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Autore "Puzzlehead" di James Bai
Pythoniana

Reg.: 06 Lug 2004
Messaggi: 1257
Da: Gorizia (GO)
Inviato: 29-11-2005 00:15  
Unica pellicola, tra quelle in concorso, vista allo SPF. E film che lo SPF l'ha vinto. Quando si dice il cu... la lungimiranza. (No, in realtà ho corrotto Menarini, in giuria, per fare bella figura con il mio editor... x quel che servirà, visto che la vedo dura x il film uscire nelle nostre sale)


Walter, scienziato solitario ed introverso, crea a propria immagine e somiglianza Puzzlehead, un automa destinato a fargli da amico, discepolo e governante. Dopo alcune settimane in casa, dove viene sottoposto da Walter ad un costante processo di apprendimento, Puzzlehead inizia a sperimentare il mondo esterno, prendendo coscienza della propria natura. Ma i veri problemi, nel rapporto tra creatore e creatura, iniziano quando l’automa conosce Julia, la ragazza di cui è innamorato Walter e, complici i ricordi che questi gli aveva passato tramite la scansione neuronale del cervello, inizia a provare qualcosa per lei. Si instaura così un triangolo pericoloso e foriero di conseguenza drammatiche…

Un patchwork di temi e citazioni. Questo appare, già ad una semplice lettura della sinossi, il film d’esordio del giovane James Bai. In primis il mito di Frankenstein, ovviamente, con i dilemmi su senso e responsabilità dell’atto creativo; quindi il binomio Jekyll/Hyde, un po’ di “Terminator” e, perché no, uno spruzzo di “Inseparabili” di Cronenberg. E questo solo per citare i primi riferimenti che vengono alla mente. E d’altra parte è anche un’opera – è stato lo stesso regista a dircelo – fortemente autobiografica: Bai, americano di genitori coreani, ci ha raccontato della fatica fatta da ragazzino a riconoscersi nella cultura dominante a stelle e strisce e del senso di alienazione patito, tratti che in effetti potrebbe apparentarlo sia all’umano Walter sia all’automa – ed in quanto tale diverso per definizione – Puzzlehead. Per la cronaca, Bai suggerisce la prima lettura e preferisce vedersi come Puzzlehead nel momento in cui ha intrapreso il cammino verso l’integrazione.
E però, pur rimanendo fermo quanto scritto sopra, sarebbe sbagliato valutare il film solamente come un semplice accumulo di prestiti o, viceversa, come un esercizio solipsistico e ripiegato su se stesso. Perché l’autore riesce invece a strutturare una narrazione interessante, che passa in corso d’opera dal tratteggio psicologico-filosofico al thriller, dimostrando una non scontata personalità stilistica. La messa in scena si caratterizza per una coerenza ed un rigore più che apprezzabili: i tre personaggi, tutti in modo diverso marginali, si muovono in ambienti desolati e privi di calore. Il mondo al di fuori della casa di Walter è anonimo e pressoché privo di vita, a parte qualche figura strettamente funzionale alla narrazione (i criminali ed il clochard che incrocia Puzzlehead, il datore di lavoro di Julia); ci troviamo, almeno così pare, in una periferia industriale, ma non vediamo automobili né insegne o cartelli pubblicitari di alcun tipo, tanto che risultano quasi stranianti le scritte sulla vetrina del negozio di alimentari in cui lavora Julia, unico segno che contrasta con l’indeterminatezza circostante. La quasi totale assenza di elementi caratteristici dell’oggi è ancora più evidente negli interni, pensati avendo come base d’ispirazione la pittura fiamminga e dominati da un’atmosfera palesemente retrò. Nella casa di Walter si va dai toni del marrone del vecchio arredamento in legno alle lunghissime tende bianche, fino a dettagli non strettamente inerenti la scenografia ma non per questo meno importanti: l’abbigliamento dei personaggi, il gioco degli scacchi, la musica di Bach e Scarlatti su cui si esercita al piano Puzzlehead (e, certo non per caso, la colonna sonora è interamente composta da brani di classica). Se il continuum di stile non solo costruisce lo sfondo per l’azione dei protagonisti ma ne rispecchia anche il paesaggio mentale, Bai si preoccupa pure di destrutturare i loro corpi: diegeticamente è quello che fa Walter con la sua creatura, mentre, sul piano formale, un lavoro analogo viene operato in sede di regia, con inquadrature che più volte privilegiano alcune parti del corpo escludendone altre. Emerge quindi chiaramente una precisa ricerca simbolista, che non appesantisce il film ma al contrario propone ulteriori spunti di riflessione allo spettatore. Così, ad esempio, la scena in cui Puzzlehead vede il senzatetto addormentato ed invidia la sua capacità di sognare (facendoci intuire che veda quella come discrimine tra la condizione umana e la sua) è seguita da un carrello orizzontale che inquadra un cielo seminascosto da una struttura metallica… la gabbia mentale che impedisce all’automa di raggiungere una condizione superiore? Può darsi, ma il regista preferisce lasciare più porte aperte al suo pubblico, come del resto le aveva lasciate anche a se stesso durante la lavorazione: “Ho pensato che la mia esperienza potesse essere trasposta in senso universale e quindi condivisa da altri. Il risultato è comunque diverso dall’idea originaria, e d’altra parte non m’interessava raccontare la storia di James Bai”. Comunque, qualunque sia l’interpretazione che si sceglie di dare al film, ecco un’altra dimostrazione che non occorre un grosso budget (inferiore al milione di dollari quello di questa produzione) per ottenere un prodotto valido, se si hanno a disposizione buone idee.
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"Riempi il tuo cranio di vino prima che si riempia di terra, disse Kayam." Nazim Hikmet

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