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Autore Riso amaro - di G. De Santis
RICHMOND

Reg.: 03 Mag 2003
Messaggi: 13088
Da: genova (GE)
Inviato: 18-07-2007 12:44  
Qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che Riso amaro (1949) sia il manifesto del neorealismo italiano, più ancora di Ladri di biciclette. Una simile considerazione potrebbe scaturire da una fuorviante attenzione (a senso unico) verso l’autore di quest’opera: Giuseppe De Santis rappresenta in realtà la smentita dell’incapacità del nostro Cinema di fuoriuscire indenne dalla melma del monotematismo, che a detta di molti lo imprigiona e lo pone in perenne attesa sull’orlo di un trampolino di lancio da quale stenta a saltare.
Riso amaro è in realtà il contrario di questo e rivaluta stilisticamente il cinema italiano.

Braccata dalla polizia, la giovane Francesca (Doris Bowling) , fidanzata e complice di Walter Granata (Vittorio Gassman), un ladro di gioielli fuggito dopo il furto di una collana– pedinato e riconosciuto dagli agenti, insieme alla ragazza, nei pressi della stazione ferroviaria da cui partono le mondine di tutto il nord Italia per recarsi nelle risaie a svolgere le loro mansioni – cerca di sfuggire agli uomini in divisa nascondendosi fra le mondine, in accordo con il suo amante fuorilegge che, prima di lasciarla salire sul treno, le affida il bottino dandole poi appuntamento in un secondo momento.
Francesca, durante la trasferta in treno, farà la conoscenza di Silvana (Silvana Mangano), molto popolare fra le colleghe per il suo carisma ed il suo carattere vivace, la quale - dopo aver visto alla stazione la sua compagna di viaggio insieme all’avvenente Walter, ed intuita una situazione anomala e degna di destar più d’un sospetto, cercherà di intrattenere con lei buoni rapporti al fine di conoscere personalmente il suo fidanzato ed incuriosita dalla situazione, aiutandola anche ad infiltrarsi fra le mondine come “clandestina”. Sarà la sua condanna, poiché all’arrivo di Walter nella risaia le cose si complicheranno, Silvana romperà i rapporti con Francesca e diventerà l’amante di Granata, trascinata conseguentemente in un turbine di vicissitudini che la faranno pentire dei suoi ingenui comportamenti.

A ben vedere il ritratto sociale c’è. Assolutamente. Ed il film parte proprio con una sorta di voce esterna agli interpreti principali: un inviato della Tv che racconta il rituale delle mondine di radunarsi alla stazione per partire verso le risaie. Ma in realtà si tratta di una facciata, dietro alla quale si nasconde molto di più.
De Santis utilizza il pretesto di un affresco neorealistico sull’ennesima fotografia dell’Italia dei suoi tempi, fra coscienza collettiva, costumi e contesti sociali, per scavare, in realtà, maggiormente dentro la coscienza del singolo personaggio. La sua è più un’opera in equilibrio fra la stereotipizzazione sociale e l’indagine psicologica, macchiata a tratti dai caratteri del neorealismo, ma contaminata molto più diffusamente dalle qualità del noir .
E a mio avviso, fra questi picchi stilistici fuori dal comune, risalta un pensiero di fondo abbastanza crudele e pessimistico, vivacizzato nella sua cupa connotazione da un erotismo primitivo che spoglia l’amore del sentimento, mettendone al vento i caratteri (esteticamente) tribali e (moralmente) egoistici (emblematiche, nel primo senso, la sequenza del ballo di Silvana Mangano e le ripetute inquadrature delle gambe della giovane mondina; nel secondo senso, le continue attenzioni che Silvana palesa – ai nostri occhi, ma non a quelli della sua amica “Francesca” - verso Walter) : ognuno, come in un gioco, si costruisce un destino. Ma chi sbaglia la prima mossa, pagherà un prezzo molto caro per tutta la vita. Ed infatti tutti i personaggi di quest’opera hanno un destino inaspettato, ma dal quale sarebbero potuti agevolmente fuggire se non fossero caduti nell’ingenuità o, peggio, nell’avidità.
De Santis dipinge una serie di prototipi sociali, sì, ma uno più negativo dell’altro e delinea così una sua (forse distorta, ma a maggior ragione non “realistica”) visione dell’essere umano. Il suo pensiero vola oltre le risaie del vercellese, e pone i protagonisti della sua opera (metaforicamente estrapolati a caso dalla “sua” società) in una scatola (chiusa) piena di tentazioni e bivii da intraprendere, suggerendoci che inevitabilmente, fra le possibili strade da percorrere, l’uomo imboccherà sempre quella sbagliata, tanto è offuscato da avidità ed aridità d’animo. E tutto sembra ruotare intorno a questa mancanza di spirito, dai rapporti fra amanti (Francesca – Walter) a quelli di amicizia (Francesca – Silvana) e di lavoro (“mondine regolari” - mondine clandestine), nei quali ognuno tende a fare i propri interessi, puntando ad illudere, plagiare e raggirare il prossimo. Non c’è sentimento nell’opera di De Santris, solo rancoroso risentimento, profondo sconforto e tanto, tanto rimorso. Ed in mezzo a tutto questo, profeticamente, la gioventù riceve la pugnalata maggiore: Silvana non parte con il piede giusto, i suoi tentativi di aiutare Francesca non sono dettati da altruismo o generosità, ma da egoistico interesse personale, ancor più scorretto se si pensa alla sua consapevolezza ed al suo dolo. Ma al momento in cui, destata dai sogni illusorii che le vengono propinati come “certo futuro” (quante volte abbiamo sentito questa favola, dai tempi di Pinocchio, ed anche prima?), si renderà conto di aver imboccato la strada sbagliata, sarà già troppo tardi. Proverà a riparare, ma il suo disagio sarà talmente forte da disilludere ogni buon proposito per il futuro, e compirà tragicamente quello che per moti giovani significa “totale assenza di luce” (e che in quella “scatola” in cui De Santis l’ha rinchiusa si traduce in un lungo viale, senza più bivii e senza precisa meta o visibile orizzonte), cioè un salto nel vuoto, chiudendo il cerchio di pessimismo che gira intorno a questo film.

Riso amaro, inoltre, anche valorizzato da un finale mozzafiato e molto sanguinolento (parrebbe che molti autori differenti fra loro, - ognuno dei quali è nato cinematograficamente dopo De Santis e, soprattutto, ciascuno dei quali ha portato avanti un proprio stile, un proprio genere ed un proprio modo di fare cinema – abbiano preso spunto dal mix stilistico che De Santis concentra in queste sequenze finali del film; dall'epilogo del Taxi driver di Scorsese al combattimento fra i manichini del Killer's kiss di S. Kubrick) per la prima volta esalta l’immagine mettendola al servizio di un’esegetica interpretazione, capace di sbizzarrirsi come non mai, in un semplice “ritratto neorealista”. Ed è per questo che Riso amaro non è neorealista, o meglio, non lo è quasi per niente.
Perché si poteva chiudere un occhio sul sarcastico moralismo di Germi che, comunque, non scappava così bruscamente dal “ritratto d’epoca”. Ma su questo De Santis, quello dalla “fotografia realista” al servizio di una mimetica poetica ancor più moralista e ricercata molto più lontano, proprio no.


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E la Terra sentii nell'Universo.
Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella.
E mi vidi quaggiù piccolo e sperso
errare, tra le stelle, in una stella.

[ Questo messaggio è stato modificato da: RICHMOND il 18-07-2007 alle 12:50 ]

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