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Autore SCHIZOBIS
Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
Messaggi: 1658
Da: Aosta (AO)
Inviato: 15-08-2006 10:25  
P

PARLA CON LEI

PARLA CON LEI di Pedro Almodovar (l’amore è una forma di psicosi)

Uno dei migliori film di Almodovar, caldo e avvolgente come una edipica coperta di Linus, zeppo di citazioni dottissime ma mai accademico o didascalico, misurato ma passionale, coinvolgente ma lucido nella sua analisi psichiatrica. Dopo un inizio folgorante che è un omaggio al Caffè Mueller di Pina Bausch vediamo intrecciarsi due storie, apparentemente parallele, ma che si intersecheranno in maniera imprevedibile: quella di Marco uomo sensibile e colto, che vive drammaticamente la fine della sua storia d’amore con una fidanzata dipendente da eroina e cocaina e di Lydia, torera per volere paterno, folle d’amore per il suo “nino” de Valencia, dissociata tra la necessità di dimenticare un amore impossibile e il desiderio continuo e insaziabile dell’amato. L’altra storia riguarda l’infermiere Benigno che dopo una vita dedicata totalmente all’anziana madre (in una totale assenza della figura paterna) concentra le sue attenzioni sulla “finestra di fronte”, dove la ballerina Alicia ogni pomeriggio si esercita con la forte e materna insegnante Geraldine Chaplin.
Ognuno insegue il suo sogno d’amore con un trasporto e una determinazione che fanno commuovere, che fanno sospendere ogni giudizio morale o ogni condanna bigotta.
Non ce la sentiamo di condannare la torera che pur tradita, decide di riprendere una storia autolesionistica e macerante, con la data di scadenza già stampata sulle corna di un toro.
Non ce la sentiamo di giudicare colpevole Benigno, soprattutto quando urla ai quattro venti il suo folle sogno di matrimonio con la povera Alicia in stato vegetativo.
Benigno ama a modo suo, con tutto il sentimento di cui è capace, con tutta la dedizione e la pazienza del servitore di Ivan Ilic di Leone Tolstoj, con tutta la speranza e la fede che a volte rendono possibile l’impossibile. “Parla con Lei” è il consiglio che Benigno dà a Marco per la sua povera Lydia, ricoverata nelle stesse condizioni di Alicia, nello stesso Ospedale. Stabilire quella comunicazione surreale, a volte impossibile nella vita reale (tra doppi vetri e microfoni usati in maniera maldestra), che consente di sentirci ancora vivi e stabilisce un flebile filo di sopravvivenza per l’ammalato comatoso. Dobbiamo imparare a stare da soli, a convivere con noi stessi, con il serpente dentro la nostra casa, con la fiducia in un giorno migliore (anche se piovoso). Dobbiamo imparare a non essere ermetici, sapendo che niente è semplice, a maggior ragione un balletto…
Lo sguardo di Almodovar, tollerante e misericordioso, riesce a trasformare uno stupro in un supremo atto d'amore.
Bellissima la metafora dell’amante calante in un muto d’epoca (un falso d’autore almodovariano) con questo amore che si rimpicciolisce giorno dopo giorno e alla fine viene fagocitato dalla vagina dell’amata, in una immagine quasi felliniana (le Tentazioni del Dr Antonio).
Altro pezzo di bravura la ripresa della corrida fatale con MdP posizionata in alto e stacco finale sul flash sciacallo di una macchina fotografica ripresa dal basso (ultima immagine dal punto di vista della torera ferita?). Piccolo omaggio a Cunningham e al suo famoso libro “The Hours”.
Magica comparsata di Veloso con la sua Cucurucucù Paloma, inno di broken hearts.
Finale da brivido con una intelligente commistione tra drammaturgia e vita reale, apprezzabile tentativo di dare un senso a quello che senso mai avrà (almeno dal punto di vista terreno).

PHILADELPHIA

PHILADELPHIA di Jonathan Demme (epistola sulla tolleranza)

Non è facile fare un film sull’Aids e non cadere nel banale, nella retorica, nel moralismo, nella descrizione macchiettistica e caricaturale.
In effetti Jonathan Demme (regista pluripremiato con Il Silenzio degli Innocenti) fa un bello slalom tra le trappole dei luoghi comuni e punta l’occhio di bue sulla necessità della giustizia senza pregiudizio, sulla tolleranza delle scelte personali e dei gusti sessuali, nella città della solidarietà e della fratellanza. Se si esclude il finale (che è un bel colpo basso allo spettatore con un filmino amatoriale strappalacrime accompagnato dalle note struggenti di un gospel di Neil Young) Jonathan Demme conduce la narrazione in maniera sobria ed equilibrata e lascia che la musica prenda il sopravvento e scandisca i momenti più importanti del film. L’inizio, bellissimo, sulle ormai famose note di “Streets of Philadelphia” del mitico Bruce Springsteen, con una successione di immagini toccanti sulla povertà dei sobborghi della grande città alternata a riprese dall’alto mozzafiato. E poi il commento sonoro di Howard Shore così in tema, che accompagna le fasi del processo e il sotto finale. E soprattutto la lirica, il brano “la mamma morta” dell’Andrea Chenier di Umberto Giordano che a mio giudizio non solo non stona (qualche critico ha consigliato a Demme di eliminarlo nella versione finale) ma permette di identificare la grande sensibilità dell’avvocato omosessuale Tom Hanks malato di Aids che trasmette all’avvocato nero Denzel Whashington il senso della catarsi nella sofferenza e il potere consolatorio della musica attorno al fango e alla miseria. Nel punto più alto dell’aria intonata magistralmente dalla Callas, Demme trasfigura il povero ammalato attaccato alla sua flebo come l’emblema della figura di un Cristo martire, il cui dolore fisico e solitudine spirituale toccano profondamente il senso di solidarietà e di fratellanza di ogni essere che definiamo umano. So che qualcuno storce il muso su questa telecamera che inquadra Hanks dall’alto, illuminato dal rosso fuoco del camino. Ma si può perdonare il punto di vista trascendentale perché quando Denzel Whashington torna a casa e abbraccia la moglie dormiente, quelle note risuonano ancora nella mente e fanno realizzare la profondità e gli abissi di una anima in pena, fanno intuire il senso della lotta legale e la battaglia per una giustizia senza pregiudizi.
La scena in biblioteca con i due avvocati che discutono sui libri è il cardine teorico di tutto il film: ” il pregiudizio è la formulazione di opinioni sulla base della semplice appartenenza di una persona a un gruppo con particolari caratteristiche. Il pregiudizio che circonda l’AIDS esige la morte sociale di coloro che ne sono affetti, tale morte sociale precede e a volte accelera la morte fisica.”
Tom Hanks spaventoso nel suo dimagramento progressivo e veramente perfetto nel non eccedere nella caricatura: una scena su tutte, quella della prima parte del film, quando all’ennesimo rifiuto dell’avvocato a difenderlo nella causa del suo licenziamento, il nostro Tom esce dall’ufficio dell’avvocato e si guarda interno, sperduto, solo, al confine con una disperazione che abbozza con alcuni cenni del viso. Il processo diventa una via crucis umiliante, tra esibizioni di lesioni cutanee e apprezzamenti ironici sulla vita privata. Denzel passa dal bigottismo fascistoide (con tratti ossessivi di omofobia) alla consapevolezza di dover riparare un torto. L’esclamare “Oh my God” davanti a un malato di Aids (indipendentemente dalla causa, sia essa una trasfusione che la promiscuità sessuale) significa volere rimuovere il problema e mantenere la distanza di sicurezza (ma mi posso prendere l’Aids con una stretta di mano?). La paura e l’ignoranza non fanno che accelerare la solitudine dell’ammalato. Ci vuole qualcosa che trasformi la terra in cielo, che raccolga le lacrime e sostenga il cammino incerto dell’infermo, qualcuno che ci doni la vita salvandoci dall’incendio, che ci sussurri “vivi ancora” anche se tutto intorno è sangue e fango, in un oblio divino che forse funziona più dell’AZT. Qualcosa di molto vicino all’amore. Qualcosa di molto vicino a una giustizia applicata alla vita reale.
Una citazione per l’ottimo giovanissimo Banderas.
Oscar a Tom Hanks per migliore attore protagonista.

PIACE A TROPPI

PIACE A TROPPI (…. Et Dieu crea la femme) di Roger Vadim 1956

Che dire, il film è un pretesto per mostrarci la giovanissima Brigitte Bardot in tutta la sua sfolgorante sensualità e animalesco istinto. Sullo sfondo di ST Tropez, la bellissima biondina è contesa dal riccone anziano Carradine (che ha tutto ma non l’amore naturalmente) da Antoine un giovane bellissimo e muscoloso che ne approfitta ma la reputa una poco di buono e dal fratello di Antoine, Michel, un Trintignant bruttino e impacciato che la ama così tanto da sposarla contro il parere di tutti
L’immagine di lei completamente nuda stesa a pancia sotto sull’erba, con l’aria di falsa Lolita, credo abbia turbato generazioni di spettatori. Le caviglie, le gambe, il fondoschiena della Bardot riempiono lo schermo e distolgono l’attenzione dagli evidenti impacci regiistici di Vadim e da enormi falle nella sceneggiatura. Soprattutto il finale con la corsa in macchina del riccone e di Antoine e il ritorno a casa degli sposini sembra attaccato con lo sputo.
Resta però una conturbante danza di una disinibita Bardot al ritmo afrosessuale del mambo, che scuote atavici sensi di possesso e istinti procreativi.
Una nota di merito per un giovanissimo Trintignant, unico personaggio in parte e abbastanza credibile in questo testardo innamoramento cieco che sembra, per qualche istante, terapeutico.
Il film ebbe nel 1956 un successo clamoroso e lanciò nel firmamento delle star la mitica Brigitte.
Oggi appare abbastanza datato e molto casto (tutto è relativo).

PECCATO CHE SIA UNA CANAGLIA

PECCATO CHE SIA UNA CANAGLIA di Alessandro Blasetti 1954

Vedere applaudire calorosamente e con convinzione da parte del pubblico della Berlinale un film italiano è una bella emozione e soddisfazione. E’ quello che è accaduto dopo la proiezione nella sessione Retrospettiva al film Peccato che sia una canaglia di Alessandro Blasetti con Vittorio De Sica, Marcellino Mastroianni e la canaglia Sophia Loren. Direi una simpatica canaglia (ladra, come il padre De Sica) anche se martirizza il povero Marcellino, ingenuo e pronto a bersi l’ennesima fregnaccia della bellona.
Ma si sa quando siamo innamorati, noi uomini riusciamo a farci prendere per il culo a 360 gradi.
Il film ha un ritmo comico irresistibile, un susseguirsi di eventi e situazioni esilaranti che la sapiente sceneggiatura sostiene con vigore. Ai duetti serrati (dialoghi botta e risposta vivacissimi) Marcello Sofia si aggiunge la ciliegina sulla torta di un De Sica in stato di grazia, capace con la sua falsa flemma inglese e la sua filosofia esistenzial-furbesca di scatenare in sala irrefrenabile riso.
Lo stile e il tono di voce con il quale il grande De Sica pronuncia “Questi giovani d’oggi, non vogliono impegnarsi, sono pigri” riferendosi a furtarelli di poco conto (lui è invece è un mago nel far sparire le valige alla stazione Termini) o quando esclama “Signor commissario è tutto uno spiacevole disdicevole malinteso” (incastrato insieme alla figlia Sophia da un furibondo e vendicativo Marcellino nell’atto di commettere l’ennesimo scippo) valgono da soli il prezzo del biglietto. E poi la Loren è davvero irresitibile in quel volere avere sempre l’ultima parola o quando intona l’ossessionante ritornello di Bingo Bongo e la sua prorompente bellezza e bravura ci fanno dimenticare l’improbabile ma inevitabile lieto fine.
Tratto da un racconto di Alberto Moravia, la sceneggiatura vede tra gli autori i mitici Ennio Flaiano e Suso Cecchi D’Amico ( e si sente).

PRIMAVERA ESTATE.....

PRIMAVERA ESTATE AUTUNNO INVERNO E ANCORA PRIMAVERA di Kim Ki Duk
(ovvero come segnare zero sulla bilancia)

Ci sono film che riconciliano con il cinema, che riescono con la sola forza evocativa delle immagini e con la circolarità narrativa a creare una atmosfera coinvolgente e una momentanea dolce anestesia. Kim attraversa le stagioni metereologiche ( e della vita) con la saggia leggerezza zen e un piccolo ironico sorriso. Il suo gusto dell’immagine non è solo estetico ma fortemente simbolico. Queste porte che si aprono e si chiudono su un paesaggio da sogno (che muta colori con il mutare delle stagioni) sono le necessarie forche caudine sotto cui bisogna passare per crescere. Ed ogni esperienza e sofferenza sono tesoro inestimabile su cui costruire il senso della nostra esistenza. L’uomo e la natura attorno, magica e irreale. Il bambino che sperimenta il suo sadismo e la sua apparente onnipotenza legando dei sassi attorno a un pesce, attorno a una rana, attorno a un serpente. Il maestro saggio che lega per contrappasso una grossa pietra attorno al corpo del bambino per spiegargli il concetto di dolore e di conseguenza delle nostre azioni. Il pianto incessante del bambino è il primo passo di questo percorso formativo.Arriva l’estate e facciamo i conti con la scoperta dell’amore e del sesso.
Crediamo di guarire le persone con il nostro amore, le facciamo immergere nell’acqua dei nostri sensi. Ma c’è in agguato una sofferente separazione, l’oggetto dei nostri desideri fugge dall’oasi del paradiso. Il monaco adolescente abbandonerà il suo maestro di vita per tuffarsi nel mondo. Ma il mondo reale degli esseri umani porta in sé il germe della corruzione e del tradimento. La donna che adesso è nostra moglie ha bisogno di essere ancora curata. Ma sceglie un altro uomo.
L’autunno del nostro scontento è un ritorno alle origini, una fuga da due detectives che inseguono per uxoricidio. Una rabbia violentissima e scuotente che è un misto di rimpianto e di delusione. Un maestro che accoglie ma punisce, che insegna a veicolare il rancore per lasciarlo pietrificare in segni dentro l’anima, una possibile conversione annunciata da una pietosa candela e una solidale coperta. Il maestro ha svolto il suo compito, a lui è concesso l’onore di ritornare natura nella natura. L’inverno chiude il cerchio tra equilibrismi (difficili) sul ghiaccio e volti coperti come in un quadro di Magritte.Il senso della vita è questo circolare eterno ritorno. Il senso della vita è questo conoscerne il peso per poi liberarsene, sotto lo sguardo del Dio che è dentro di noi.Il senso della vita è raggiungere quella leggerezza che fa segnare zero sulla bilancia (Ferro 3).

PROFONDO ROSSO

PROFONDO ROSSO di Dario Argento 1975 (deep purple ovvero lo specchio rivelatore)

Già l’inizio con la musica incalzante dei Goblin ( e di Giorgio Gaslini) sui titoli di testa inframezzato dal piccolo flashback rivelatore (con annessa filastrocca infantile) fa davvero scorrere i brividi.
Argento fa virare il giallo classico verso il rosso pompeiano, esaltando gli aspetti parapsicologici e soprannaturali, zoomando su dettagli (le armi e i pupazzetti dell’assassino), sottolineando nella decorazione degli ambienti gli aspetti mostruosi e deformi, i colori accesi e le zone oscure.
Argento è talmente padrone del mezzo espressivo da sfidare lo spettatore facendogli vedere l’assassino nella scena del primo omicidio (provate a fare un fermo immagine su uno dei quadri orrorifici che “decorano” il corridoio della casa della parapsicologa, avrete una bella sorpresa) e mescolando abilmente ricordi e realtà in un cocktail di cui non riesci più a distinguere i sapori.
L’attore che incarna magistralmente questa confusione tra la realtà immaginata e quella veramente accaduta non può che essere il David Hemmings di Blow Up, anche qui alle prese con la indecifrabilità del reale (Antonioni docet). La violenza è iperespressa in un delirio estetico che solo un genio visionario può assecondare e incanalare in forma filmica. Argento inquadra in primo piano spartiti di musica, tasti di pianoforte, dischi di vinile, giradischi,registratori, fronti imperlate di sudore, occhi truccati o che spiano da una fessura (Psyco citazione dotta). Piccola chicca per gli amanti dell’arte moderna: dotto omaggio ai “Nottambuli” di Edward Hopper (Argento ne ricostruisce il bar nella piazza in cui Hemmings e Lavia discutono di sogno e realtà) tela dell’Art Institute di Chicago
Girato tra Roma e Torino, creando una città spettrale ideale e fuori dai canoni spazio temporali e senza punti di riferimento, in una atmosfera da ghost story sottolineata da una colonna sonora ormai leggendaria. Sceneggiato a quattro mani con il mitico Bernardino Zapponi ( già collaboratore di Federico Fellini).
Interpretazioni shakespeariane di Glauco Mauri e Gabriele Lavia, in tono con la nota tragico-lirica degli avvenimenti. Dialoghi mai banali, intermezzi autoironici supportati dall’istrionismo di Daria Nicolodi (ai tempi influente compagna del regista). Piccola incongruenza narrativa la presenza all’inizio dell’assassino in un bagno non adatto, altro piccolo peccato veniale il dilungarsi della scena nella villa dei misteri (la scoperta del graffito dell’assassino).
Bella riesumazione di una stella del nostro cinema muto, Clara Calamai (con foto annesse).
Insieme a Suspiria, uno dei migliori film di Dario Argento, inimitabile, inconfondibile.
Tutto funziona in un meraviglioso meccanismo a incastro.
A noi piace ricordarlo così.

PROVACI ANCORA SAM

PROVACI ANCORA SAM di Herbert Ross (ci vuole un fisico bestiale)

Da una commedia di Woody Allen rappresentata con successo a teatro, Allen stesso e il regista Ross confezionano questo piccolo omaggio cinefilo al mitico Casablanca di Curtiz.
L’inizio è il leggendario finale del film con Humphrey Bogart e Ingrid Begman, con il nostro eroe che preferisce una virile amicizia ad un amore diviso a metà. Nel cinema viene spesso proiettato tutto quello che vorremmo essere nella vita reale ma che fattori fisici e psicologici ci impediscono di realizzare. Ecco allora che il piccolo occhialuto Allan Felix (un woody allen dagli scatti nevrotici irresistibili) materializza davanti a sé il fantasma di Bogart, e prova a darsi una scossa per provare non solo a guardare la vita (fa il critico cinematografico a San Francisco) ma anche a viverla. Lasciato dalla moglie per un motociclista cazzuto (alla Easy Rider), il nostro ebreo errante colleziona una serie di gaffe e brutte figure con l’altro sesso e il circolo vizioso in cui si impantana è direttamente correlato al bassissimo grado di autostima. Diane Keaton (moglie del miglior amico di Allen, uno yuppie ante litteram senza ancora il telefonino) si affeziona a questo omuncolo impacciato ma sensibile e colto. Nasce l’amore con tutti i sensi di colpa del caso ma il finale rispecchierà fedelmente il finale di Casablanca, in una coincidenza tra vita filmica e vita reale che è la base di tanto potere consolatorio del cinema. Irresistibile la scena in cui Allen tenta di ballare in discoteca e rimedia un “pussa via sgorbio” che tarpa definitivamente le ali del povero Felix.
Serie impressionante di battute ( su tutte “Cosa pensi a quando facciamo l’amore?”con solita surreale replica di Allen : “A Carlos Monzon”) e solita comicità verbale di Allen purtroppo a volte strabordante sul materiale filmico. Se avesse un po’ più di fisicità Woody sarebbe perfetto, purtroppo ci vuole un fisico bestiale per fare Buster Keaton o per fare Charlie Chaplin. Da sottolineare la prova brillante di Diane Keaton (che diventerà compagna di Allen per un lungo fortunato periodo) e l’altrettanto riuscito ruolo di spalla di Tony Roberts.
Piccola curiosità sul titolo: si riferisce in realtà alla celebre frase “Suonala ancora Sam”di Ingrid Bergman rivolta al pianista nero Sam che ha appena accennato il tema “As Time goes by” ed è buffo pensare che conoscendo la ignoranza cinefila dello spettatore italiano medio, si sia arrivati a stravolgere il doppiaggio e a chiamare il protagonista Sam.
Location San Francisco ma il film si svolge soprattutto in interni tradendo la sua origine da una “piece” teatrale.
Grande successo di pubblico.


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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
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Da: Aosta (AO)
Inviato: 15-08-2006 10:27  
Q

QUELL'OSCURO OGGETTO DEL DESIDERIO

QUELL’OSCURO OGGETTO DEL DESIDERIO di Luis Bunuel 1977 (una donna andalusa e il burattino borghese)

“Mi scusi signore, ma cosa facciamo alle tre di pomeriggio a Singapore?”
“La Siesta.”

Luis Bunuel classe 1900 alla veneranda età di 77 anni (ma è niente se paragonato a De Oliveira) chiude la sua carriera cinematografica (iniziata con il mitico “cane Andaluso” nel 1929) con questa opera densa di richiami e rimandi a tutta la sua produzione precedente. In un viaggio su un treno da Siviglia a Parigi, Fernando Ray (Don Matteo) racconta l’inseguimento dell’oscuro oggetto del desiderio, ovvero Conchita, una ragazza andalusa conosciuta come cameriera per la prima volta a casa del fratello magistrato. Il colpo di genio è che Bunuel sdoppia Conchita in due attrici (le debuttanti Carole Boquet e Angela Molina, agli antipodi caratteriali) ma la fa doppiare da una. L’effetto è davvero superbo e alla fine del film non ci accorgiamo nemmeno del passaggio da una attrice all’altra di scena in scena, quasi a volere suggerire un concetto universale di donna che da preda si fa cacciatrice e umilia il maschio con la forza di un desiderio mai appagato. Sullo sfondo della storia ma in realtà asse portante di questa, un clima di tensione e di attentati scatenati dalla fantomatica sigla GARBG (Gruppo Armato Rivoluzionario del Bambin Gesù) e che fanno sussultare lo spettatore ma non i protagonisti che sembramo semplicemente indifferenti e annoiati dalle sparatorie ed esplosioni. “Se vai con le donne non dimenticare il bastone” e “Le Donne sono sacco di escrementi” dice il maggiordomo di Don Matteo ma le sue frasi invece che confermare la misoginia di Bunuel sembrano essere uno sberleffo irriverente al falso dominio del maschio. Tra soldi sbattuti sul tavolo, regali costosissimi e addirittura intestazioni di beni immobili il nostro borghese piccolo piccolo non riesce a possedere nemmeno per un istante il corpo della bella Conchita, che al contrario lo sfinisce in un inseguimento umiliante, lo aizza con la comunicazione non verbale e poi gli sbatte un no! improvviso e inaspettato, fa odorare il profumo del suo sesso ma poi si presenta a letto con una cintura di castità impossibile da rimuovere (modello Dottor Gibaud). Quante scuse! “Chiudi la finestra, spegni le candele, no questo non me lo puoi chiedere, domani, no meglio tra tre giorni.”
Quanti uomini si lasciano trainare da un pelo di fica, quanti uomini gettano amicizie e soldi al vento pur di suonare la chitarra. Conchita esclama in un rigurgito post femminista “la chitarra è mia e la suono per chi mi pare” e al povero Don Matteo non resta che lo smacco vojeuristico della propria immagine del desiderio giacente con un uomo più fornito e più giovane di lui. Il film è disseminato di immagini surreali che naturalmente hanno il solo scopo di spiazzare lo spettatore Non c’è niente da capire: il topo in trappola, il maiale in fasce, la mosca nel bicchiere possono scatenare mille idiozie interpretative ma probabilmente rappresentano quel che sono, ovvero nulla. Luis Bunuel apre la scatola del suo cinema ma ci prende in giro facendoci vedere un set della piccola ricamatrice, un adesivo a forma di piede e una caramella. E’ vero che desideriamo ardentemente e ossessivamente proprio quello che ci è continuamente e sadicamente negato e che nel momento in cui l’oggetto è catturato è per sempre perso. Ma continuiamo ad illuderci di essere vivi e portiamo il nostro sacco di iuta pieno di straccie e vestiti da rammendare sperando di incontrare qualcuno che ci rattoppi l’anima sanguinante, che possa in qualche modo ricucire il vuoto che ci smembra ogni possibilità d’amore.
E per favore fate tacere quel cane e fatemi gustare il grande botto.
Citazione d’onore per Angela Molina che balla il flamenco nuda con una naturalezza disarmante.
Atmosfera di insurrezione permanente sottolineata dalla musica del duetto del I atto delle Valchirie wagneriane.
Un congedo coi fiocchi, una uscita di scena degna del grande maestro aragonese.


“ Io sono al fianco di quelli che cercano ma abbandono quelli che credono di aver trovato. Nei miei film non ci sono simbolismi e soprattutto non c’è la psicoanalisi. Ma qualche volta mi divertono le assurde interpretazioni che si fanno dei miei film. Mi è capitato di ridere fino alle lacrime leggendo certi articoli del Cahiers du Cinema….. Luis Bunuel”
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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
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Da: Aosta (AO)
Inviato: 15-08-2006 10:29  
R

RAGING BULL

RAGING BULL (la madre di tutte le sconfitte) di Martin Scorsese 1980

La madre di tutte le sconfitte. Una totale identificazione con la tematica autodistruttiva di Scorsese. Un film portato avanti e completato come se fosse l’ultimo, la sensazione di dover lasciare un testamento postumo. Martin Scorsese durante le riprese del film, entra ed esce dagli ospedali in preda a dolori atroci di stomaco ed emorragie interne. La droga e l’alcol gli hanno bucato le budella ed i medici non sono ottimisti sulla prognosi. Raging Bull non è un film sul pugilato, non è un film su Jack La Motta, non è un film su un italiano paranoico (e con deliri di gelosia) a Brooklyn o meglio tutto ciò è un pretesto. Scorsese vuole rappresentare (in un bianco e nero neo realistico) la sua parabola autodistruttiva e la lucida coscienza del proprio autolesionismo: “prima ero cieco, adesso ci vedo….”(dal Vangelo secondo Giovanni).
L’inizio è folgorante ed epico: sulle note dell’Intermezzo della Cavalleria Rusticana di Mascagni vediamo il mitico Jack La Motta avvolto in una nuvola simbolica di fumo muoversi al rallentatore su un ring che sembra sospeso nel tempo e nello spazio,agitando i guantoni nel’aria (combattendo fantasmi?); unico punto di riferimento le corde del ring che dividono il campo di ripresa in tre spazi identici. La parabola ha una fase ascendente: in questa vediamo il talentuoso Jack macinare ad uno ad uno i suoi avversari, con il talento e la determinazione di una rabbia giovane, selvaggia ma, si badi bene, pura. Le riprese dei combattimenti sono entrate nella storia del cinema, Scorsese mette la macchina da presa in mezzo al ring, e i pugni dati e presi sono ingigantiti dalla soggettiva. Gli schizzi di sangue e le trasfigurazioni dei volti tumefatti sottolineano in maniera iperrealistica la violenta legge del ring ( e della vita). Ma già nella veloce fase ascendente Scorsese tratteggia il carattere di un uomo fondamentalmente insicuro, ossessionato dalla gelosia, ossessionato dal fatto di avere le mani troppo piccole (solo le mani?), violento come un cinghiale ma anche amabilmente tenero con il fratello (un Joe Pesci veramente leggendario) e nei pentimenti post ira funesta con la vispa moglie (massacrata di botte). I dialoghi tra De Niro e Joe Pesci sono quanto di più bello abbia prodotto Martin Scorsese nella fine introspezione psicologica dei personaggi; in essi vi è tratteggiato genialmente tutto l’universo psicopatico di Jack, l’iniziale amore e comprensione del fratello maggiore che tenta di aprirgli la scalata al mondiale, commettendo il più tragico degli errori:scendere a compromessi, perdere la purezza, vendersi l’anima.
La parabola discendente di Jack inizia proprio nel momento in cui è costretto a vendere il suo primo incontro a Cosa Nostra. Da quel momento in poi Jack perde completamente il controllo di stesso, perché ha venduto se stesso. Vincerà il suo mondiale, indosserà la tanto sognata corona, ma si rende conto del retrogusto amaro di questo successo: in fondo lui ha vinto perché i mammasantissima hanno dato via libera. Non basta il talento, jack, a questo mondo. Adesso la paranoia diventa delirio maniacale, vedi nemici ovunque, tua moglie, tuo fratello. I tuoi pugni colpiscono a vuoto, jack, perché stai sbagliando bersaglio. Sei solo adesso, non puoi più continuare ad essere pugile, cerchi di inventarti una seconda carriera aprendo uno squallido locale e intrattenendo gli avventori con battutine da avanspettacolo. In questo delirio autodistruttivo e masochistico riesci a farti beccare dalla polizia per corruzione di minorenne e ti sbattono pure in galera. Il grande Jack La Motta in galera, grasso come un bue (trasformazione straordinaria di DeNiro, ingrassato per davvero di 25 chili!!!!), preso per il culo dai secondini.
Una fine ingloriosa, una trasfigurazione indecente come indecente è staccare a martellate le pietre preziose dalla cintura iridata per ricavarne un po’ di quattrini.
Ma proprio nel buio della cella avviene la conversione dell’ uomo La Motta, in una delle scene più toccanti del film. Quella serie impressionante di pugni rivolti verso il muro sono in realtà diretti verso sé stesso, nella lucida coscienza di avere gettato tutta la sua vita alle ortiche come uno stupido. Stupido stupido stupido ripetuto all’infinito. Il finale è un altro colpo di genio Scorsesiano, un nuovo duello allo specchio (modello Taxi Driver) dell’antieroe, ma stavolta il sorriso teatrale di Jack (con citazione dotta da “Fronte del Porto”) sottende la rassegnata accettazione della sconfitta (that’s entairtment, anche questo fa parte dello spettacolo), questa volta sappiamo benissimo di chi è la colpa. It’s you, Jack (o Charlie).

Martin Scorsese ha avuto una seconda possibilità per salvare la sua vita e lo ha fatto.
Sarebbe bello dopo essere stati ciechi per così tanto tempo, potere avere una seconda possibilità per apprezzare meglio la vita.

A mio giudizio il miglior film di Scorsese. Si sentono moltissimo le influenze del nostro cinema (il Fellini de “La Strada”, Il Visconti di “Rocco e i suoi fratelli”)
Oscar a De Niro come miglior attore protagonista (era impossibile non darlo!).
Oscar a Thelma Schoonmaker per il miglior montaggio
Naturalmente i giurati degli Academy Awards bocciano Scorsese e Lynch (The elephant man!) e danno il premio di miglior film e miglior regia (sic!!!!) a Robert Redford con il pasticciaccio melenso di Ordinary people (Gente Comune).
Bocciato pure Joe Pesci a favore di Timothy Hutton in Ordinary People come miglior attore non protagonista.
Uno scandalo, insomma!

RICOMINCIO DACCAPO

RICOMINCIO DA CAPO (un sogno lungo un giorno)

L’idea sulla quale poggia il film è geniale: una stessa giornata il 2 Febbraio (giorno della marmotta) rivissuta all’infinito dal metreologo Bill Murray in una sorta di incantesimo oscuro (ma non troppo).
Il cinismo e l’aridità morale di Bill aumentano in maniera esponenziale e raggiungono lo zenit comico nella scena delle diverse modalità di suicidio di un uomo che non riesce a cambiare sé stesso per sbloccare l’incanto. Non solo, la ripetitività delle situazioni e l’assoluta riproducibilità degli eventi porta al tedium vitae il nostro disilluso Bill che fa un po’ l’errore di due terzi del genere umano, si lascia vivere e subisce passivamente quello che la vita gli propina. Eppure basta poco per cambiare il corso della vita, senza la superbia di sentirsi Dio e utilizzare la conoscenza per scopi egoistici. Il cieco Bill non si accorge di Andie McDowell davanti a lui, o forse fa finta di non vederla e ripiega sulle avventure di una sera, meno impegnative e deresponsabilizzanti, ma alla fine utilizza il tempo di 24 ore per migliorare se stesso e gli altri. Bill Murray in grande forma è credibilissimo nella mutazione da cinico a romantico. Andie McDowell è ottima spalla e riesce a convincere nel ruolo catartico. Sarà stupido emozionarsi per il giorno della Marmotta, ma forse è il segreto per potere continuare a vivere con leggerezza, giorno per giorno, costruendo qualcosa. L’imprevidibilità metereologica è molto vicina a quella della nostra esistenza, Bill però impara a convivere con la propria ombra. E sa che è impossibile resuscitare i morti.
Film meno banale di quanto possa sembrare, un po’ moraleggiante ma non troppo, a parte la conclusione lieta e didattica. Una ora e mezza di divertimento semplice e intelligente, senza troppe pretese.


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Schizobis

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LA SAMARITANA

LA SAMARITANA (ovvero la necessità del perdono)

Dopo le acclamazioni oceaniche di Ferro3, Kim Ki Duk si scrolla di dosso opportunamente un po’ di fans (ci riuscirà meglio con L’Arco 2005) girando un film totalmente diverso e con (udite!udite!) molti dialoghi.
Stavolta il blocco narrativo è diviso in tre tronconi che però dovrebbero rappresentare i tre punti di vista dei protagonisti: Jae-yeong ragazzina che si prostituisce, Yeo-jin amica del cuore che ne prenderà letteralmente il posto e Young-Q, padre di quest’ultima, detective che scopre la doppia vita della figlia e decide di vendicarsi. In realtà nel primo blocco si sente forte l’influenza della Samaritana che però nei blocchi narrativi successivi va man mano perdendo di importanza di fronte alla espansione del personaggio del padre detective che diventa fulcro centrale e motore di tutto il film (grandissima la prova del’attore Lee Uhl).

1°Blocco VASUMITRA.
Questa prima parte è caratterizzata dal grande sentimento d’amore di Yeo-ji per l’amica che si prostituisce, Jae-yeong Vasumitra. Quest’ultima lo fa per divertimento e anche per missione (Vasumitra rende gli uomini che incotra più buoni) e l’amica pur di poterle stare vicino e seguirla in ogni passo decide di fare da “pappona” intascando lei i soldi dei clienti per un ipotetico viaggio a due in Europa. In realtà sembra più una scusa per tenere il suo amato oggetto del desiderio vicino a sé, coprendo un enorme vuoto affettivo che Yeo-ji si porta dal momento della morte della madre.
Si colma questo vuoto con un legame affettivo morboso, quasi maniacale. Ma il fantasma di una unità familiare sembra aleggiare sulle due protagoniste (bellissima la scena di loro a cavalcioni sul muretto con le statue di fianco a rappresentare padr madre e figlia). L’intimità che si viene a crerare tra le due è davvero intensa ed è ben evidenziata dalla scena del bagno in cui le due si purificano delle macchie lasciate loro dal mondo, strofinando bene con le spugne le loro pelli delicate.
2°Blocco SAMARIA
La morte accidentale (ma sembra più un suicidio) di Jae-Jeong sembra innescare nell’amica amante Yeo-ji un processo di identificazione ed espiazione, come se l’annullamento della propria identità coincidesse con una nuova nascita e con una necessità di redenzione. La Samaritana Yeo-yi andrà a letto con tutti gli antichi clienti di Jae-Jeong per restituire loro i soldi. Insomma una operazione di cancellazione del debito morale e del senso di colpa per la morte dell’amata e in più l’accettazione delle brutture del mondo con placida rassegnazione.
3°Blocco SONATA
Dal momento in cui Young Q scopre la prostituzione della figlia inizia una sorta di inseguimento che contiene in sé l’insicurezza di chi vede crollarsi il mondo addosso e l’aggressività da giustiziere vendicatore. Il mondo spirituale in cui credeva il detective crolla miseramente con tutte le buone parabole e gli esempi di santità (Madre Teresa).L’episodio in cui Young Q arriva fino a casa di uno dei clienti della figlia e lo aggredisce verbalmente e fisicamente causandone il suicidio mostra il contrasto tra una vita normale di facciata e la possibilità di cedere all’istinto praticando sesso con una minorenne. La consapevolezza della dualità diventa orrore e si conclude con l’autosoppressione. Ma Young Q esagera e addirittura arriva a uccidere con le proprie mani (in una delle scene più cruente del film) un altro cliente della figlia. Il vuoto affettivo di Young Q non può essere colmato dalla visita alla tomba della moglie insieme alla figlia. C’è un senso di irreparabilità nel finale di questo film, il padre può insegnare alla figlia a guidare, ma non può evitare che ella si impantani e si allontani da lui per sempre. Il padre seppellisce metaforicamente la figlia. La figlia deve imparare a fare i conti con una nuova assenza, quella del padre che si costituisce per il delitto commesso.
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Inviato: 15-08-2006 10:33  
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LA TIGRE E IL DRAGONE

LA TIGRE E IL DRAGONE DI ANG LEE 2000 (Crouching tiger, Hidden Dragon)

Quando usci nel 2000 il film ebbe un grosso successo di pubblico e di critica, vincendo anche 4 Oscar (quello di miglior film straniero, miglior scenografia, migliore fotografia, migliori colonna sonora). A rivederlo oggi a mente fredda, fuori dalla novità degli effetti digitali e dei combattimenti wuxia, confrontandolo con Hero e La foresta dei pugnali volanti, direi che Ang Lee perde il confronto con il grande Zhang Yimou. Nonostante il grande impatto visivo dell’ambientazione storica (Cina di fine 1700) e lo spessore psicologico dei protagonisti (su tutti il grande maestro Chow Yun Fat perfetta sintesi tra Tigre accovacciata e Dragone nascosto) il film non convince del tutto. Il primo problema è il flashback nel deserto che è tirato troppo per le lunghe e rende il film molto più prolisso (in altre parole la parentesi desertica non è funzionale all’economia del racconto) quasi a sforare le due ore. Il secondo problema è la permanente assenza della forza di gravità che fa fluttuare i protagonisti a mezz’aria in maniera troppo insistita e quasi autocompiaciuta, rendendo i duelli un po’ troppo caricaturali (anche se avvincenti dal punto di vista spettacolare). Il terzo problema è il finale tirato un po’ per i capelli, con Zhang Zi Yi che ce la mette tutta ma non riesce ad essere (forse per la giovane età) convincente nel doppio tuffo volante per esaudire il desiderio dell’amato. Come pietra miliare di un genere (ma il debito verso il cinema di Hong Kong è evidente) il film assume un valore particolare. La dualità dei protagonisti è la stessa di Hulk e dei cowboy omosex ed è determinata da una scelta non volontaria ma subita sotto il peso schiacciante delle convenzioni e delle ipocrisie. Anche in questo film c’è un amore non vissuto che i due protagonisti nascondono dietro l’alibi di un mondo cattivo e moralmente degradato. Purtroppo solo la mancanza (la morte) mette in risalto la vanità del tutto. Il percorso ascetico è minacciato dalle tempeste del cuore.Si può volare leggeri quanto si vuole, ma quando si tocca terra, l’unica certezza che ti rimane è una perenne dualità dell’anima, una continua lotta interiore tra la tigre e il dragone.

TAXI DRIVER

TAXI DRIVER di Martin Scorsese (la solitudine dell’antieroe) 1976

Scorsese rivoluzionario, Scorsese Toro Scatenato aiutato da un De Niro in stato di grazia e da uno sceneggiatore coltissimo Paul Schrader (ex critico cinematografico) che cita Ozu e Bresson a piene mani. Che differenza con lo Scorsese hollywoodiano di Gangs of New York e The Aviator!
E poi l’ultima musica di Herrmann, il compositore preferito di Hitchcock.
Un po’ della nausea di Paul Sartre e tantissima, immensa solitudine (cosmica oserei).
Travis De Niro non riesce a dormire e cerca un lavoro notturno. Farà il tassista ma il suo male di vivere a contatto con la degradata realtà suburbana si trasformerà in follia omicida da ultimo dei moicani metropolitani. La nevrosi d’ansia che lo tiene desto fino alle prime ore della mattina si tramuterà in psicosi maniacale depressiva con tentativo finale di autosoppressione. Scorsese è bravo a riprendere in maniera distorta e allucinata la New York notturna, popolata da puttane e papponi, teppisti e violenti. Travis guarda questa realtà sempre in maniera indiretta, attraverso lo specchietto retrovisore, come fosse incapace di reggere un confronto diretto. L’alienazione e l’auto emarginazione si mescolano alla voglia d’amore e di rapporti umani. Travis è un bambino che fa le prove allo specchio della sua crisi d’identità (stai dicendo a me?, ehi stai parlando con me?) e usa la pistola (non giocattolo) per difendersi da sé stesso (altro).E’ colpa tua Charlie, è colpa tua Charlie Travis (ricordate il monologo di un altro antieroe, Jack La Motta in Toro Scatenato?)
Travis è una contraddizione vivente e riuscirà a farsi del male volontariamente, recidendo con lucida determinazione (con il grottesco spettacolo di un film porno) una storia d’amore appena nata con la splendida Cybill Sheperd. La deflagrazione di questo rapporto andato a male è una vera e propria implosione nella psiche di Travis. Come posso fare pulizia per questo mondo malato? Come posso pulire la sporcizia che ho dentro? La furia quasi mistica di vendicatore non è che un subconscio tentativo di punirsi per la sua incapacità a volere bene. L’inferno sono gli altri, ma noi non siamo molto meglio… Cosa rappresenta Pallantine? La mistificazione della realtà ad uso elettorale. Cosa rappresenta la Televisione? Una mistificazione della realtà con relativi istupidimento dell’utente? Una puttana bambina (una dodicenne Jodie Foster) sembra potere risvegliare in Travis quell’ingenuità perduta. Ma il mondo che le ruota attorno è marcio e puzzolente come l’immondizia che si accumula sulle strade. Le quattro pistole di Travis sono pronte a dispensare una giustizia sommaria e dannatamente frustrata. Dalle invettive a qualche automobilista distratto, dal razzismo strisciante verso una umanità sempre più distante si passa alla violenza psicopatologica, al culto del corpo e delle armi, fino a trasformarsi (letteralmente trasfigurarsi) in un moicano assassino (come gli squadroni della morte in Vietnam). Keitel si ritaglia la parte del magnaccia capellone e sbruffone (il dialogo iniziale con De Niro è un capolavoro di improvvisazione)
Scorsese muove la macchina da presa in maniera rivoluzionaria (pensate alla scena di Travis al telefono mentre cerca di riconquistare Cybill, ad un certo punto mentre Travis sta ancora parlando alla cornetta la camera si sposta su un corridoio lungo e vuoto che verrà alla fine percorso da Travis alla fine della sfortunata telefonata, pensate alle riprese dall’alto del massacro finale in un delirio estetizzante e iperrealistico, pensate a Travis che entra nel deposito dei Taxi e improvvisamente viene perso dall’inquadratura che lo recupera dopo un arco di almeno 180 gradi) e sembra davvero un piccolo rivoluzionario Ejzenstejn. Il massacro di Travis resterà impunito da questa società mediatica affamata di falsi eroi. Gli occhi folli di Travis ci scrutano ancora una volta dallo specchietto retrovisore, la bella Cybill che ci portiamo per passeggera è solo una proiezione, subito inghiottita dalle luci (psichedeliche) della città.
Palma d’oro (strameritata) al festival di Cannes 1976

TAKE THE MONEY AND RUN

PRENDI I SOLDI E SCAPPA di Woody Allen (la autoironia dell’ebreo errante ovvero esteriors)

Opera prima (1969!) del grande Woody e sano divertimento intelligente. La storia del maldestro rapinatore Virgin raccontata in stile documentaristico attraverso interviste delle persone che lo hanno conosciuto e con una voce narrante imperturbabile nel descrivere situazioni assurde e demenziali, colpisce davvero nel segno. Il solo osservare i genitori di Virgin con maschere alla Groucho Marx è fonte di ilarità e Woody Allen che si trasforma in rabbino rappresenta uno dei momenti di comicità irresistibile del film. Le trovate esilaranti sono infinite e senza tregua. Qualche pausa quando Woody indugia sulla storia d’amore con una inespressiva…… o quando fa trovare una famiglia di zingari nel caveau di una banca. Il tipico umorismo yiddish pervade tutta la pellicola e sta alla base del grande successo (che da noi e’ pero posteriore a quello di Provaci ancora, Sam). Scena da antologia la doppia rapina in banca, la prima con problemi di ortografia, la seconda con problemi di traffico.
Siamo lontani dagli intellettualismi newyorchesi e dalle influenze bergmaniane e felliniane.
Qui il modello è smaccatamente la comicità dei fratelli Marx ed evidentissime influenze degli antieroi di Gogol.
Dialoghi ironici e sceneggiatura portentosa. Nessuna volgarità o caduta di gusto. Finale geniale.
Un grande illuminante profetico debutto.
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VOLVER

VOLVER di Pedro Almodovar 2006 (Nostos, il ritorno a Itaca)

Film maturo ed equilibrato questo di Almodovar, che filtra materiale magmatico e incandescente attraverso la spugna assorbente dell’animo femminile che, nella rielaborazione a manto misericordioso, concede anche un abbozzo di perdono all’uomo peccatore.
Il vento soffia e scatena incendi e follie, l’implosione psichica determina la disgregazione familiare fra segreti non detti e colpe non confessate (segreti e bugie).
Almodovar riprende la misura del film Parla con Lei e crea il suo film più intimo e familiare, immergendosi dentro la placenta degli affetti dell’infanzia prima della contaminazione dell’uomo.
Sono odori, sapori, sensazioni tattili, suoni, visioni (fantasmi?) andati irrimediabilmente perduti e intravisti a sprazzi tra le pieghe di una odissea per la sopravvivenza.
Sole avvicina la narice al manubrio della cyclette della madre ed è attratta e spaventata da quel richiamo del tempo, da quel canto di sirene che la riporta a Itaca.
Penelope Cruz (con rinforzino posteriore) nasconde una ferita orrenda e ancora sanguinante e lo capiamo nel momento in cui intona la canzone che dà il titolo al film e lo fa con un trasporto e una immedesimazione sospette che fanno venire la pelle d’oca. Il rispetto verso i morti significa rispetto verso sé stessi, il non lasciare soli le persone in difficoltà (o malate) significa non trovarsi a propria volta abbandonati nel momento della necessità. La TV compra il tuo dolore, non lo guarisce, né lo cura. L’unica medicina è il solidale affetto familiare e la consapevolezza di una unità ricostituita. I fantasmi non piangono, infatti non ci sono fantasmi, non ci sono morti viventi, non ci sono spettri del passato. Ci sono donne tremendamente vive che portano sulle spalle un bel po’ di peccati del mondo. Ci sono uomini bastonati a dovere, ma con qualche attenuante e la concessione della pietas per le debolezze della carne. Figlia mia, figlia mia, perché mi hai abbandonato? Tutta questa sofferenza ritrova alla fine un senso perché, come si dice nel finale del Mago di Oz, “There is no place like home”.
Regia sobria, intima, a tratti bergmaniana. Attori perfetti, scene curate nei minimi particolari, finale emozionante e coinvolgente.
Omaggio ad una altra donna di ferro, Anna Magnani.

VERTIGO

VERTIGO di Alfred Hitchcock 1958 (la pericolosa vertigine della follia d’amore ovvero la vita non è una cosa meravigliosa ovvero l’horror vacuii della solitudine)

“Non si dovrebbe stare soli”

L’invito è di avvicinarsi a questo film evitando l’approccio razionale scientifico e trascurando l’intreccio thriller e la caccia al colpevole. A differenza delle altre opere di Hitchcock, Vertigo rappresenta la descrizione sincera, sentita, coinvolta, assolutamente partecipata di una ossessione d’amore che diventa patologia psichiatrica. L’investigatore acrofobico Scottie Ferguson (James Steweart modello post guerra, non più meravigliato e sognante alla Frank Capra, ma complicato e disilluso) si innamora della donna (Kim Novak splendida nel suo taileur grigio e nell’ambivalenza di donna preda e cacciatrice) che pedina per conto di un suo vecchio compagno di college, ma non ne riesce ad evitare il suicidio dal campanile di una vecchia chiesa proprio per la sua paura dell’altezza. Il momento fondamentale del film è l’incontro, per caso, per strada, di una donna dai capelli rossi del tutto simile alla suicida. Qui scatta il genio di Hitchcock che interseca l’ossessione d’amore di James Stewart che tende a modificare l’oggetto del suo folle sentimento nel ricordo soggettivo (e nell’immagine ormai indelebile nella memoria) con la forza contraria di Kim Novak che va in direzione opposta, ovvero nel tentativo di farsi amare cosi come è, abbandonando una immagine del passato che non le appartiene più, ma al contrario rappresenta l’ombra di un inganno feroce e terribile da rimuovere al più presto. E certi rapporti d’amore non si deteriorano proprio per questa vertigine malsana di ricreare un passato che non c’è più, cercando il futuro alle proprie spalle, invece di guardare avanti? Gli occhi pieni di lacrime di James Stewart nel momento in cui Kim Novak esce dal bagno, completamente trasformata (e perfettamente aderente all’immagine necrofila) sono tra i più bei momenti della storia del cinema. Il progressivo avvicinamento di Kim Novak alla storia di Carlotta Mendes passa attraverso tre suicidi: il primo falso, il secondo è un uxoricidio, il terzo è invece riuscito e rappresenta la totale identificazione con il fantasma del passato (che emerge dall’oscurità). La scena della sequoia sempervivens, nella quale Kim Novak identifica la piccolezza della sua vita mortale in una semplice venatura del tronco, è forse il primo segno di dissociazione della personalità (accompagnata dal nascente innamoramento per James Stewart). Un bacio ha per sfondo un mare in tempesta (della baia di San Francisco) che rimanda alla stessa agitazione dei due protagonisti, alla loro caduta nel vuoto, nel gorgo vorticoso della passione sensuale (non dimentichiamoci che Kim Novak dovrebbe essere la moglie dell’amico di James Stewart e quindi non “avvicinabile”). Tra gli attori di contorno, una menzione merita la pura Barbara Bel Geddes (la matriarca di Dallas) che ancora non contaminata dalle tenebre dell’animo umano ha l’ingenuità di affermare: “E’ Mozart, quello che ci vuole per te, la scopa che spazza via le tele del ragno…”. Altro che Mozart, qui ci vuole una dose massiccia di antipsicotici.
Altro particolare da segnalare l’originalità dei titoli di testa con il logo della vertigine che nasce proprio dall’occhio di chi guarda e inoltre la bravura tecnica di Hitchcock che rende la paura del vuoto inquadrando un modellino di scale alla Escher e zoomando in avanti con una contemporanea carrellata all’indietro. Altra vertigine tecnica la scena del bacio con lo sfondo cangiante mentre ruota attorno ai protagonisti (citata per esempio da Brian De Palma in Omicidio a Luci Rosse).
Girato a San Francisco.
Musica famosissima di Bernard Hermann.
Opera stracitata e di culto: tra i film che vi si sono ispirati ricordo L’esercito delle 12 Scimmie, Omicidio a Luci rosse e naturalmente Mulholland Drive (e in effetti il taileur grigio di Naomi Watts ricorda proprio quello di Kim Novak).

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L'uomo vive di ragione, ma sopravvive di sogni.

[ Questo messaggio è stato modificato da: Schizobis il 08-09-2006 alle 23:25 ]

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THE KILLING

FACE OFF di John Woo 1997 (doppia identità)

John goes to Hollywood e sforna dopo il successo di Broken Arrow, il film che più si avvicina ai romantici momenti di The Killer e di A better tomorrow. Il regista ha sempre contrapposto l’immagine del bene e del male ma alla separazione banalmente manichea ha sostituito una totale mancanza di confini etici e la crisi di identità. Lo stile è inconfondibile ed è caratterizzato da accelerazioni e poi improvvise decelerazioni (con uso di moviola), da esagerazioni estetizzanti e richiami spirituali, colombe nella chiesa (ricordate the Killer?) e depersonalizzazione dei due protagonisti. Il super cattivone Nick Cage impersona lo psicopatico folle omicida Castor Troy in maniera sublime e ne svela anche il lato (apparentemente OFF) di fratello apprensivo (che cura in quell’allacciare le stringhe delle scarpe al fratellino) e di padre suo malgrado (e a sua insaputa).
John Travolta (qui perde il confronto con il bravo Nick) è invece il buon detective Sean Acher cui Castor ha ucciso per errore il figlioletto (ma per errore): la vendetta stravolge la mente e i comportamenti del nostro poliziotto ed emerge il lato (apparentemente OFF) irascibile e paranoico, mal sopportato da figlia metallara e moglie dottoressa. L’idea geniale è quella di fare trapiantare la faccia del nostro Nick megalomane all’incazzatissimo agente FBI Travolta. Il problema è che nascono gli intoppi, Nick si trapianta la faccia di Travolta ed abbiamo uno scambio di identità e di destini. La società incasella i buoni come buoni e i cattivi come cattivi dopo avere riconosciuti i connotati: da questo grande inganno è difficile uscirne indenni. Assunta la faccia di Cage il Travolta da buono viene giudicato cattivo e si ritrova in un penitenziario del futuro tra stivaloni magnetici ed immagini rassicuranti degli schermi. Come uscirne? Woo è sadico quando infierisce mostrandoci Cage che con la faccia di Travolta non solo fa una rapida escalation ai vertici della FBI (per ricoprire certi ruoli apicali uno dei requisiti è la ambizione senza scrupoli etici?) ma si scopa moglie e a momenti anche la figlia del nostro povero detective recluso. La bravura di Woo è di portare la narrazione al livello in cui lo spettatore si chiede:e adesso? Come si può uscire da questa situazione? Altro tocco geniale è che fa avvicinare a metà strada i due protagonisti, prima veramente antitetici e agli antipodi: infatti fa umanizzare un po’ di più Cage con la faccia di Travolta (sublime la frase:”Bugie, diffidenze, situazioni ambigue….sta diventando un matrimonio vero” riferita ai sospetti della dottoressa sull’identità dell’uomo con cui giace la notte) e addirittura lo porta alla tomba del bambino da lui ucciso (e qui il cattivone distoglie lo sguardo e reclina il capo in un abozzo di pentimento). E poi fa incattivire Il Travolta con la faccia di Cage in maniera tale da non sopportare più nemmeno l’immagine allo specchio e gli fa placare ogni furia vendicativa (voglio strappargli via la faccia, FACE OFF) venendo a contatto con la famiglia (disastrata) del grande nemico.Chi sono io? Non sono più uomo, io? Quando i due puntano le pistole verso l’immagine di sé stessi riflessa allo specchio capiamo che la crisi di identità è sfociata in delirio paranoico e questi due folli assomigliano tanto al Travis decadente di Taxi Driver o forse al Martin Sheen schizzato di Apocalypse Now. 137 minuti di film ma non si avvertono, tanto la narrazione è fluida e le scene mozzafiato. Solita resa dei conti con inseguimento sull’acqua ed effetti speciali strabordanti (il trapianto di faccia è da brivido). Nel finale John Woo paga il dazio ad Hollywood e si inventa la famiglia ideale (roba veramente vomitevole) e strappa l’applauso allo spettatorucolo medio americano ingozzato di coca cola e pop corn. Peccato.


THE KILLER
THE KILLER di John Woo 1989 (la solitudine di due eroi romantici)

Ispirato dal film americano This Gun for Hire del 1942 (rifatto nel 1962 dai giapponesi con il titolo il Fuorilegge), questo film rappresenta la summa poetica di John Woo ed è significativamente distante dai precedenti A better tomorrow I e II. Qui il regista di Hong Kong dilata la percezione lirica e ispirato da Jean Pierre Melville de “Il Samurai” disegna la figura di due uomini così simili tra loro da essere rappresentati come in uno specchio. Bellissima la scena in cui il movimento lento della camera dolly passa lateralmente inquadrando l’appartamento del killer Cho Yun-Fat (un Alain Delon asiatico faccia d’angelo), alternando la sua inquadratura con quella dell’alter ego poliziotto Danny Lee (con immancabile sigaretta nella mano sinistra). Woo cita a man bassa lo Scorsese di Mean Street e Taxi Driver (nella introspezione psicologica dei due personaggi maschili, nelle immagini religiose e nei commenti musicali melodrammatici) e il De Palma Di Scarface (soprattutto nella esteriorizzazione della violenza e nel trionfo della morte finale). Ritmo forsennato e final cut del regista (esisteva una versione più lunga del film) con un montaggio entrato nella leggenda (ribaltando le regole si vedono spesso prima i colpiti e poi le armi di chi colpisce). Una scena per tutte l’alternanza delle immagini della festa religiosa a hong Kong e i preparativi dell’attesa del killer sull’acqua prima dei tre spari precisi. Woo con questo film si prende tutta la libertà artistica (che Hollywood in futuro non consentirà) per creare una atmosfera romantica e fortemente pervasa da senso dell’onore e dignità umana (molto emozionante la scena nella chiesa sconsacrata) e firma il suo capolavoro.Ancora da sottolineare il momento in cui il poliziotto estrae la pallottola dal braccio del killer con la polvere da sparo che suggella in maniera involontariamente sensuale il rapporto tra i due (questa scena mi ha riportato alla memoria il patto di sangue di Brokeback Mountain).Tutta la violenza del film sembra assumere un significato catartico ed è sorprendentemente sostenibile. Carneficina al cubo nel Duello al Sole che suggella la resa dei conti e finale non consolatorio assolutamente perfetto (i due ciechi si cercano invano).
Unica nota stonata la ancora acerba Sally Yee che non riesce a dare spessore al suo personaggio.
Con questo film Woo verrà notato da Hollywood e chiamato a dirigere film come Broken Arrow, Face Off, Windtalkers, Mission Impossible II. Forse solo in Face Off il regista torna alla compattezza e alla libertà estetica del “The Killer”.


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WILD AT HEART

CUORE SELVAGGIO di David Lynch (Wild at heart and Weird on the top)

E’ il 1990, David Lynch viene dallo strepitoso successo della prima serie di Twin Peaks e, affascinato dal libro Wild at Heart di Barry Gifford scrive rapidamente la sceneggiatura del suo nuovo film supportato da un adeguato impegno produttivo.
Entriamo nel favoloso mondo di Oz-Lynch con due interpreti che combaciano perfettamente nei loro ruoli: Laura Dern-Lula (che qui è l’immagine diametralmente opposta della biondina ingenua di Blue Velvet) e Nick Cage-Sailor (novello James Dean-Elvis Presley con giubbotto di pelle di serpente).
La storia d’amore tra i due protagonisti si sviluppa in un contesto di violenza, orrore, depravazione, stranezze, bizzarrie, surrealismi, elementi da favola, streghe e fate che finiscono per contaminare il mondo dei due piccioncini. Già la scena iniziale mostra una reazione di una violenza iperbolica scatenata da una provocazione (questo legame non s’ha da fare). Nick paga il fio delle sue colpe e appena esce di prigione (libertà vigilata) insegue on the road (New Orleans-Big Tuna) il suo sogno d’amore con la bella Lula. Ma la navigazione del marinaio è costellata da incidenti e intoppi e i due si rendono conto abbastanza presto che il rischio è la “road to perdition”. Non sorprende che i due si difendano dal mondo esterno con una bulimia sessuale costruita sulla fisicità dei loro incontri e alimentata da racconti eccitanti delle proprie esperienze erotiche passate. “Mi commuovi nel profondo” dice Lula a Sailor e in realtà la sua emozione la vediamo trasudare e urlare di piacere. Lynch inserisce da maestro i soliti elementi destabilizzanti: la strega cattiva dell’Ovest e la fata buona (importati direttamente dal Mago di Oz), lo psicopatico Crispin Glover che si infila scarafaggi nell’ano (Freud sempre Freud), un pappone Mr Reindeer attorniato da bellocce pronte a soddisfarlo, Jack Nance che cita il cane del mago di Oz, Juana la bionda zoppa torturatrice (protagonista di una delle scene più torride e insostenibili del film che venne poi tagliata prima di passare alla grande distribuzione quando a una proiezione test, due terzi del pubblico abbandonò la sala protestando. Questa scena faceva coincidere l’orgasmo di Juana con l’esecuzione del povero Harry Dean Stanton), Perdita Durango-Isabella Rossellini quasi irriconoscibile, mignottoni e mangiatori di fuoco, sigarette fumate all’infinito e fuoco che cammina (con noi) e divampa nel subconscio dei protagonisti (c’è pure una efficace scena di un aborto resa da Lynch con un colpo di genio).
La materializzazione del mondo strano e terribile di Lynch prende forma nella scena dell’incidente di macchina che rivela ai due fuggiaschi Lula e Sailor l’assurdità e irrealtà del momento della morte (5 minuti leggendari con una mitica Sherilyn Fenn) e li costringe a interrompere il loro sogno da favola e confrontarsi con la realtà. Da quel momento le cose precipitano: Lula è incinta e Sailor si lascia tentare da un perfido Willem Dafoe in una rapina Tarantiniana, molto pulp che si conclude con una nota geniale di humor macabro. Già in questo film sono gettati i semi di molto cinema pulp da lì a venire, che riscuoterà grande successo e la consacrazione critica (proprio a Cannes, qualche anno dopo, verranno premiati Le Iene e Pulp Fiction). Lynch potrebbe fare finire il film come il libro di Gifford ma decide scioccamente per un finale provocatorio (e barocco) di cui volentieri avremmo fatto a meno. E’questo in realtà l’unico (ma fondamentale) neo di una opera che contiene in sé veramente tutto (o quasi) l’universo Lynchiano e che rappresenta l’ideale prosecuzione del più equilibrato Blue Velvet.Insomma la solita splendida mela di David Lynch con dentro l’orrido verme.
Omaggi per cinefili colti sparsi per tutto il film (i più evidenti sono per Federico Fellini e Jacques Tati)
Palma d’oro al Festival di Cannes 1990 (premio voluto fortemente dal presidente di giuria Bernardo Bertolucci e apertamente contestato).



[ Questo messaggio è stato modificato da: Schizobis il 16-08-2006 alle 11:07 ]

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Inviato: 24-09-2006 18:12  
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In data 2006-08-10 15:09, Schizobis scrive:
A

ANNO DEL DRAGONE http://forumfilmup.leonardo.it/forum/viewtopic.php?topic=52853&forum=4&0

ALIEN

ALIEN di Ridley Scott 1979 (il mostro è dentro di noi)

“cos’è, cos’è, si riproduce vivo in me, cos’è…..?”
Afterhours Germi

Ci sono tre film che hanno rivoluzionato il genere fantascientifico e due di questi portano la firma del grande Ridley Scott: Alien (1979) e Blade Runner (1982). L’altro film è naturalmente 2001 A Space Odissey (1968) di Kubrick ma questo film merita una analisi a parte, essendo pietra miliare e insieme film spartiacque contemporaneamente.
Perché Alien è rivoluzionario?
Per almeno tre motivi: perché posiziona la minaccia aliena non all’esterno ma all’interno, facendola rinascere dal ventre (paterno) di un essere umano, in una continua allusione alla maternità (il computer non si chiama HAL ma MOTHER) e alla possibilità che sia il sonno della ragione a generare i mostri ( e in effetti solo un gesto irrazionale può fare aprire il portellone dell’astronave Nostromo e fare entrare dentro il microcosmo umano la creatura aliena ,oserei dire La Cosa alla maniera del maestro Carpenter, che deve avere visto Alien almeno una trentina di volte, prima di girare il suo capolavoro). Già in questo primo punto la coerenza di Ridley Scott è massima: infatti il gatto non è toccato dal mostro alieno, che sembra ingigantirsi man mano che le paure e gli errori umani si moltiplicano (ma come non si fa a non sospettare di Ian Holm?). Insomma è irrazionale aspettarsi che l’uomo sia razionale.
Il secondo motivo è la netta equivalenza tra crescita incontrollata tumorale e sviluppo della creatura aliena. Da quando lo vediamo nascere (e un fremito d’orrore misto a commozione avvolge quella scena entrata nella leggenda del cinema) fino al momento dello scontro finale con Ripley-Sigourney Weaver, Alien cresce a dismisura in maniera esponenziale mimando la progressione di una neoplasia maligna. Scott riesce a fare combaciare insieme la sopra menzionata paura di generare un mostro (tipica di molte donne in gravidanza che hanno paura di generare neonati con qualche orribile deformazione), con la paura di avere qualcosa dentro che si sviluppi in maniera incontrollata, deturpando la normale fisionomia della nostra immagine corporea (notate la precisa descrizione scientifica che fa lo scienziato Ian Holm, splendido prototipo dei replicanti di Blade Runner, delle cellule che compongono il rivestimento dell’alieno, assomigliano proprio a cellule neoplastiche).
Terzo motivo è il clima claustrofoico che si viene a creare man mano che il racconto procede e l’andamento cadenzato eliminatorio (modello …”e poi non ne rimase nessuno” di Agata Christie) che è davvero avvincente e, a mio parere, avrebbe trovato il suo climax adatto nel mostrare dove vanno a finire alcuni dei cadaveri catturati dall’alieno (purtroppo la scena è stata tagliata). La bravura di Scott è di generare la paura ad ogni inquadratura, suggerendo l’ubiquità e inafferrabilità di una creatura aliena che si adatta quasi immediatamente alla atmosfera della Nostromo, strisciando tra i condotti d’aria e impadronendosi rapidamente dei segreti dell’astronave, attaccando di sorpresa e mimetizzandosi così rapidamente da sembrare un esperto dell’Arte della guerra.
Guerra psicologica tra i vari componenti dell’astronave e paura dell’ignoto che fa saltare i nervi ad attori e spettatori in un crescendo di altissima tensione.
Finale che avrebbe potuto essere più interlocutorio, magari una lunga inquadratura del ventre di Ripley dormiente, quasi a suggerire che la minaccia potrebbe essere li dentro…. Ai posteri l’ardua sentenza.Enorme successo di pubblico, saga composta da altri tre episodi (tutti di ottima fattura ma pur sempre inferiori all’originale, io ho un debole per l’ultimo episodio La Clonazione).
Scenografia di alto livello con umanizzazione delle strutture meccaniche. Soliti computer che invece di rispondere alle domande si ingarbugliano in password e codici d’accesso (e non rispettano nemmeno i conti alla rovescia!). Note di merito per John Hurt (oh my elephant man!!) e Harry Dean Stanton. Quando la Weaver lavora nella saga Aliena, riesce a dare il meglio di sé
Mostro di Carlo Rambaldi (per la parte meccanica) disegnato da Giger (con allusione agli organi genitali maschili).


AMORESPERROS

AMORESPERROS di Alejandro Gonzales Inarritu 2002 (The exact opposite of God ovvero The City of Dog)

Debutto al fulmicotone per questo giovanissimo regista messicano (che si autoproduce) che intreccia tre differenti storie con diversi punti di contatto in 150 minuti di film frenetici e densi di omaggi cinefili. I primi minuti anche se sono una citazione nemmeno troppo velata del folgorante inizio di Reservoir Dogs di Quentin Tarantino sono girati con una frenesia e una abilità da maestro navigato. E a dire il vero la prima parte del film, quella che narra dei combattimenti tra cani e descrive abilmente la storia d’amore impossibile tra Octavio (un bellissimo Gael Garcia) e Susana, moglie di suo fratello Ramiro, in una Città del Messico piena di rifiuti (umani e canini) e nero bitume, è davvero convincente e tesissima. In questa prima sezione Inarritu è molto equilibrato e sa districarsi bene tra la violenza iperespressa nelle immagini e la sdrammatizzazione in un turpiloquio davvero esilarante, inserendo anche nobilissimi elementi di riflessione poliico-sociali mai banali. Poi però già dal secondo episodio si innesta una altra caratteristica di questo giovane autore messicano (che verrà purtroppo enfatizzata nella opera due 21 Grammi) la tendenza a scivolare nel melodramma latino, accatastando disgrazie su disgrazie, coincidenze su coincidenze, sfortune su sfortune, che appesantiscono la narrazione e la fanno stagnare su lacrimoni e sospironi, manierismi nei dialoghi e nei primi piani insistiti. E’ come se Inarritu sia sempre pronto a scivolare sull’amaro miele dell’intreccio da fotoromanzo barocco latinoamericano e riesca solo a tratti, con il sapiente montaggio del film e la costruzione di simbolismi riusciti (il cartellone pubblicitario vuoto, i due fratellastri liberati come cani da combattimento) a volare alto lontano dalla contaminazione sentimentale. La terza sezione sembra riportare il film sul binario simil tarantiniano dei primi quaranta minuti ma poi Inarritu decide di intestardirsi a farci vedere tutto ( e spiegare tutto). Ci fa vedere in primo piano una bella bara con morto, ci fa assistere ad una patetica dedica su segreteria telefonica di un padre figliuol prodigo che scoppia a singhiozzare e ancora un cane (Nero) e il suo padrone che riprendono la via come i due innamorati in Tempi Moderni di Chaplin. E anche sul nostro amato Garcia che prende una decisione assurda. Non era meglio chiudere il film su una lunga attesa alla stazione degli autobus mentre scorrono i titoli di coda (con camera fissa in campo lungo)?
Resta comunque un film sopra la media, una piccola preghiera inascoltata verso un Dio che sembra chiudere troppo spesso gli occhi sulle miserie umane e a cui gli uomini spesso abbaiano solo come alibi per continuare nella loro mediocre avidità e nella loro assurda ferocia. Se si legge al contrario God che parola esce fuori?

APRI DGLI OCCHI

APRI GLI OCCHI di Alejandro Amenabar 1997 (la vita è sogno)

“Forse posso aiutarti a ricordare……”
“E’ una minaccia?”

Alejandro Amenabar classe 1972 sforna a soli 25 anni questa opera seconda impressionante (la sua opera prima è un altro film assolutamente originale come Tesis) che per tema trattato e modo di sviluppare la narrazione richiama in maniera abbastanza scoperta le atmosfere da incubo del fantasma dell’ Opera e certe visioni oniriche apocalittiche e fantascientifiche di Terry Gilliam.
Un giovane si trova con il suo psichiatra rinchiuso in un manicomio criminale accusato di omicidio.
Ha una maschera sulla faccia a coprire un volto orrendamente sfigurato da un incidente di macchina. La vita reale e il sogno si mescolano abilmente e in realtà lo spettatore subisce lo smarrimento del protagonista davanti a una realtà che da un certo momento in poi assume i contorni di un incubo paranoide. In realtà esiste una spiegazione logica per tutto questo e Amenabar la fornisce, da abile prestigiatore, negli ultimi 5 minuti di film, svelando il fantascientifico arcano.
Amenabar ha un grande pregio, quello di non farsi prendere la mano e di tenere saldamente in pugno personaggi e storia, con diverse pennellate d’artista (l’incubo della città vuota all’ inizio, la scena di Penelope Cruz-Sofia mimo sotto la pioggia, la scena della discoteca in cui la maschera calzata al contrario fa apparire il giovane Eduardo Noriega Cesar un novello Giano bifronte).
In più il giovanissimo regista non si accontenta di intorbidire con le immagini del subconscio una realtà posticcia inserita (a pagamento) nella testa del protagonista (il subconscio sostituisce Sofia con Nuria e fa saltare il giochetto della Life Extension), ma sottolinea con mano leggera la caducità della bellezza fisica di fronte alle recite quotidiane delle amnesie improvvise. La solitudine immensa che circonda il povero Cesar dopo il terribile incidente di macchina è semplicemente il raccolto avaro della sua semina di cinismo e nichilismo, di tradimento dei valori, di vuoto esistenziale, di mancanza di punti di riferimento o comunque di guida morale (quando il giovane Cesar guarda le foto di Sofia a casa della ragazza, in realtà avverte per la prima volta il vuoto di sentimenti e affetti, l’assenza di ricordi della sua infanzia e dei suoi genitori, l’incapacità a fissare un momento reale in una esistenza tutta basata sul carpe diem). In quel momento Cesar apre gli occhi (“abre los ojos” sembra più un esortazione al nostro Cesar e allo spettatore a non farsi ingannare rispettivamente da falsi idoli e da false realtà) e prova il primo vero sentimento d’amore per Sofia. E’ se il dejavù non fosse altro che un microchip inserito nel nostro cervello che sostituisce un realtà simile ma insopportabile? Ma Dio Padre può essere sostituito da uno psichiatra? Forse come diceva Calderon de la Barca la vita è sogno, ed è più facile trasfigurare la realtà, piuttosto che affrontarla. Preferiamo, in fin dei conti, indossare una maschera e fingere, piuttosto che essere veramente noi stessi; preferiamo chiudere gli occhi e volare giù piuttosto che aprirli e lottare. Il film si chiude abilmente su una seconda possibilità: apri gli occhi, Cesar, apri gli occhi. E’ ora di svegliarsi, ragazzo, il sogno è finito.

Nel 2001 è stato proposto un rifacimento hollywoodiano di questo film dal titolo “Vanilla Sky” con la stessa Penelope Cruz, Cameron Diaz e Tom Cruise. Io preferisco l’originale.
Amenabar incontrerà più avanti il successo internazionale e l’Oscar con “The Others” e il fantastico “Mare Dentro”


[ Questo messaggio è stato modificato da: Schizobis il 16-08-2006 alle 11:01 ]



la recensione di Alien è reperibile
qui http://www.cinemaplus.it/leggi-recensione.asp?id=112

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