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Vizio di forma











Doc Sportello (Joaquìn Phoenix), capelli lunghi, basettoni e sandali ai piedi, è un hippy che di mestiere fa il detective che vive nella Los Angeles degli anni ‘70. Un giorno la sua ex Shasta (Katherine Waterstone) che ha ancora un forte fascino su di lui, si rifà viva chiedendogli di indagare su una brutta vicenda che coinvolge il suo attuale fidanzato. Doc, con il suo fare indolente ma ostinato, tra droghe, allucinazioni o presunte tali, si imbarca in una ricerca man mano sempre più complicata e paranoica, ma che con il tempo assumerà anche dei contorni ben precisi.
La settima fatica del quarantacinquenne Paul Thomas Anderson è la prima pellicola mai tratta da un libro di Thomas Pynchon, l’omonimo “Vizio di forma”, ed è un film bello e (o ma?) complesso, pienamente nell’ormai riconoscibile, tanto venerato da alcuni quanto disprezzato da altri, stile del regista statunitense. Anderson è famoso per la coralità (di ispirazione altmaniana) dei suoi film, e questo non è da meno: la pellicola è colma di personaggi, tutti funzionali alla costruzione del quadro di un’epoca, quella dell’America anni ’70, rappresentata con un pizzico di nostalgia e devozione. Ne esce un paese a due facce: da una parte lo Stato che va in Cambogia a controllare il traffico di droga, i suoi funzionari (i poliziotti) intolleranti e ottusi e la borghesia bene (i dentisti) con i suoi vizi privati e pubbliche virtù, dall’altra quei ragazzi che non si riconoscevano in quel tipo di paese, gli hippy appunto, che per evadere sperimentavano droghe e che predicavano l’amore. Le prime tre categorie sono rimaste, la quarta no, e con questo Anderson vuole avanzare anche una riflessione sull’America di oggi, un paese che “ha perso la sua innocenza” (P.T. Anderson) e lo ha fatto proprio a cavallo di quegli anni, quando, come dice lo stesso Pynchon nel libro, Charles Manson commettendo i suoi delitti ha svegliato gli Stati Uniti dal quel sogno che erano stati gli anni ’60. Nella generale prova corale emerge comunque quella particolare di Joaquìn Phoenix, al secondo film consecutivo con Anderson dopo il discusso e meraviglioso “The Master”. Phoenix dà vita ad un personaggio memorabile: Doc Sportello, con il suo look, la sua andatura, la sua indolenza e simpatia ma anche la sua etica è certamente uno dei personaggi più vivi dell’opera di Anderson, e questo grazie anche al notevole lavoro di scrittura dello stesso regista e dell’autore del libro nel quale, parola di Phoenix, “c’era già tutto”. Prova eccezionale anche dello stesso Anderson, che ancora una volta si conferma un fuoriclasse della regia. Nei suoi mille intrecci e risvolti e nella sua atmosfera allucinata, “Vizio di forma” è però anche un film difficile, che si dovrà scontrare con il grande pubblico: se da una parte cinefili e cultori del grande schermo ameranno il lavoro di Anderson, dall’altra difficilmente farà breccia nei cuori della fetta più grande di spettatori, il che, comunque la si pensi, è un limite. Se non altro per il regista stesso che dopo i trentacinque milioni di budget per “The Master” ha dovuto lavorare a questa pellicola con ben quindici di meno.

La frase:
"Finché la vita americana sarebbe rimasta qualcosa da cui scappare, il cartello rimaneva un pozzo senza fondo".

a cura di Alessio Altieri

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