Il rito
Non vi è fede nel giovane seminarista americano Michael Kovak (Colin O’Donoghue), fin da piccolo a contatto con la morte. Il padre (Rutger Hauer), un severo impresario di pompe funebri, non aveva nessuna intenzione di mandare il figlio al college. La scelta del seminario fu la fuga da un impiego destinato, un modo per riuscire a studiare e vivere. Conclusi gli studi, Michael decide di inviare una lettera in cui rinuncia alla carriera ecclesiastica: ma un evento e un prete, padre Matthew (Toby Jones), lo condurranno a Roma, dove un gruppo di ecclesiastici studia gli esorcismi, sotto la guida di padre Xavier (Ciarán Hinds). Per vincere le resistenze fideistiche di Michael, padre Xavier lo affianca al noto esorcista gesuita padre Lucas Trevant (Anthony Hopkins), un uomo che da anni combatte la sua battaglia contro il diavolo. L’opera del religioso, inviso a molti, non pare impressionare Michael, che interpreta ogni manifestazione "malefica" come un’espressione di psicopatologia. Finché qualcosa accade.
È svedese questo nuovo film sugli esorcismi, diretto da Mikael Håfström, abile creatore di atmosfere lugubri e soprannaturali, si pensi a 1408, dal racconto di Stephen King. La matrice europea si percepisce tutta in questa pellicola inquietante, che ha trionfato al box office americano: più che una sfilata di scene splatter e orripilanti, "Il rito" vorrebbe porsi come una riflessione sul rapporto logica/fede, sul predominio della ragione (rappresentata da Michael che pare avere una risposta a tutto) sull’inconoscibile e sull’analisi del lato oscuro, fuori e dentro di noi. Michael è un individuo che, per vari motivi, anche legati a un irrisolto rapporto con il padre, non vuole vedere e la sua logica è cieca, perfino stolida in più momenti del film. Suo contraltare è padre Lucas, che vede troppo, in bilico e in pericolo in un mondo di tenebre che ha scelto di combattere. Ma per combattere qualcosa bisogna anche conoscerlo e ri-conoscerlo: di qui quell’aura ambigua che accompagna Lucas Trevant e che Anthony Hopkins rende da par suo, senza eccessive gigionerie o cadute in "simil Lecter". Se Mikael Håfström avesse scelto di procedere su questa strada "Il rit" avrebbe potuto essere un film "nuovo" e interessante, di riflessione e di prove attoriali, corroborate dalla mano del regista, che sa appiccicarci addosso un fastidioso senso di vischioso. Ma il regista si abbandona troppo in fretta al già collaudato, a cliché che dopo L’esorcista di William Friedkin si sono molte volte visti: porte che cigolano, gatti, stridori, urla... solo che anche qui Håfström non sceglie di percorrere la strada dell’horror deciso e, infatti, pochissime sono le scene che fanno sobbalzare e la svolta finale è già prevedibile dall’inizio. Insomma, il regista svedese non decide che strada imboccare e resta in bilico: cercando di accontentare tutti non soddisfa nessuno e offre un prodotto vedibile, ben recitato da tutti ma che non è destinato a lasciare tracce e fa rimpiangere padre Merrin.

La frase: "Stai attento Michael: non credere al diavolo non ti protegge da lui".

Donata Ferrario

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